Milano – dal 14 Gennaio al 10 Febbraio 2016

Chiara Gatti

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Stefano Rauzi non ha paura del buio. E, se ce l’ha, la nasconde bene.
Molti artisti del passato, hanno esorcizzato le loro ansie affrontandole sulla tela. Basti pensare ai più grandi. Rembrandt o Caravaggio ritraevano la notte, le profondità dell’inconscio, il buio come simbolo dell’ignoto e della paura che inghiottiva il mondo, per allontanare da sé i dubbi acri sull’esistenza, affrontarli a testa alta, armanti di quei bagliori improvvisi che saettavano come lampi dentro le loro immagini tetre.
Non so quanto Rauzi abbia guardato ai maestri e quanto si sia lasciato influenzare. Il suo carattere riservato, la sua capacità di penetrare nei meandri dello spirito per psicanalizzare le debolezze umane, possono averlo condotto in solitaria, senza debiti, senza vincoli, verso la creazione di un universo parallelo, dove si proiettano dolori quotidiani. Imprevedibile, sintetico, lapidario nei giudizi come nel segno che attraversa le superfici, più tagliente di una lama, Rauzi ha una storia tutta sua da raccontare. Che ha il sapore un po’ street, un po’ underground dell’arte surreale e pop d’ultima generazione. Ma non si ferma qui e pesca in un bacino di suggestioni più magmatico, nei temi eterni della memoria, dell’infanzia e della famiglia, nella grande letteratura noir, un po’ maledetta, di inizio Novecento, in un estetismo decadente che tratta argomenti giganteschi, come l’amore e la morte, con metafore visionarie, atmosfere teatrali.
Stefano oltre a essere un pittore è, insomma, un giovane narratore. Un romanziere dell’occulto, che ritrae se stesso – e questo spiega la quantità impressionante di autoritratti – anche quando ritrae gli altri. Parla di se stesso anche quando allestisce commedie tragiche zeppe di personaggi irrisolti. Vagano intorno, nel vuoto, in cerca di un copione da recitare, schegge impazzite fra le trame di un dramma contorto. In principio, proprio come a teatro, tutto è avvolto nel buio. Luci spente su una pittura sorda, pastosa, sinistra. Nelle opere degli esordi – un autoritratto diabolico davanti a una finestra fiabesca, stile Perrault, e un dittico spettrale con uomini borghesi al tavolo di un bar, neri come la pece – la materia limacciosa aggrediva le tenebre, srotolando matasse grasse su volti urlanti e mascherati. Viene in mente la grinta ferina degli espressionisti di scuola tedesca. I toni acidi dei colori che spiccano sul nero prendono a pugni lo stomaco, come un thriller tachicardico.
Poi però, nel giro di un paio d’anni, il buio ha cominciato a dissiparsi in atmosfere più elettriche. Tinte al neon, verdi lisergici, sfumature fluo dilagano su volti mascherati, presenze pallide in stanzette inquietanti, punteggiate da pochi mobili scassati. La tensione non cala sotto i proiettori. Rauzi, nei suoi autoritratti, indossa adesso travestimenti grotteschi: teste di lupo o di maiale. È uno zombie che vaga da un ambiente all’altro cercando oggetti per ferirsi e per ferire. Ma la violenza è un’altra cosa. La sua è un’espiazione e la pittura è l’antidoto all’abbandono. Gli fornisce sempre un bandolo a cui aggrapparsi per non perdere di vista la strada del ritorno nel mondo reale. Fuori dello schermo, giù dal palco, al di là dello specchio di Lewis Carroll, appeso fra realtà e immaginazione. «Non si può credere a una cosa impossibile» ripeteva Alice. «Oserei dire che non ti sei allenata molto» ribatteva la Regina. «Quando ero giovane, mi esercitavo sempre mezz’ora al giorno. A volte riuscivo a credere anche a sei cose impossibili prima di colazione». Rauzi, prima di colazione ne ha già concepite almeno una ventina. Mostri in bicicletta, personaggi dai corpi gommosi, uomini come scarafaggi, arti tentacolari, ragni nella testa, coccodrilli mannari, danze macabre, cavalieri in groppa ad asini azzurri e civette sul comò.
L’iconografia è frenetica, delirante. Eppure un sesto senso innato per la composizione fa sì che nessuna comparsa, nessun oggetto sfugga alla centralità della trama. In certi casi, Rauzi infatti dipana le sequenze annodandole con lacci di pittura nera o di carbone pesante. La linea per lui è un linguaggio espressivo dalla matrice allegorica. La linea indica la via, collega, intreccia, unisce, ghermisce elementi diversi che galleggiano su un palco deserto, la tavola grezza di legno che lascia come sfondo senza trattarla. Il volto ritagliato di uomo del Cinquecento applicato, come un collage, su una sagoma vuota; un abito dipinto con strappi di tappezzeria, una sberla di rosso ematico traccia le gambe di un tavolo, mentre una dama romantica occhieggia da un lato. Il cortocircuito fra passato e presente è stridente, folle, destabilizzante, ma innesca meccanismi di associazioni ideali nel cervello. I romanzi di Rauzi, le sue opere al nero e quelle a colori, si possono leggere senza pause. Voracemente. Basta seguire quel famoso filo che le ricuce come suture sulla pelle.
Letterariamente parlando, la pittura-scrittura alterna ritmi diversi. Il gesto energico stende l’olio a strati densi, dripping colati in secondo piano. Le forbici affettano carte da parati, fotografie rubate alle riviste, dettagli decorativi e illustrazioni di vecchi ed enormi volumi dell’Ottocento. L’assemblaggio, il recupero, l’ornato, l’ordito, si sommano in scenari stratificati, racconti corali. Rauzi è un fiume di invenzioni narrative. E, come non ha paura del buio, non teme neppure la luce abbagliante. Dal nero pesto dell’inizio è approdato al bianco algido e lunare del foglio intonso. Piccole schegge di colore, teatrini dell’umana convivenza, liti, incomprensioni, morsi e cazzotti, popolano scenette feroci che ci mettono in guardia sulle nostre pulsioni represse, sulle nostre reazioni inconsulte, sul nostro lato oscuro e sul diavoletto che stilla perfidi consigli nelle orecchie tese. Il chiarore acuisce la sensazione allucinogena, surreale. Come nel Milk Bar di Kubrick in Arancia meccanica o nella neve algida del labirinto di Shining. La luce, a volte – avverte Rauzi – può essere peggio del buio. E anche il suo segno sottile, impercettibile, affilato, inghiottito dalla carta, ferisce più dei toni sanguigni. Il silenzio, a volte, fa rumore. Il bianco, a volte, è più plumbeo della notte.

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